mercoledì 6 novembre 2013

Una parte di me

Vicinanza. Di recente, la psicologa che in questi anni mi ha aiutata ha puntualizzato una serie di miei comportamenti nei suoi confronti, tutti finalizzati ad impedire una vicinanza, un'intimità con l'altro. Dai gesti semplici (scegliere una sedia piuttosto che un'altra, frapporre oggetti tra me è l'interlocutore) a situazioni più complesse (parlo dei miei problemi e sorrido, impedendo all'altra persona di venire in contatto con quello che veramente provo io, cioè dolore), al fatto che sono un po' restia a parlare. "Restia" è un eufemismo: ci ho messo due anni per tirare fuori un problema, per poi riporlo sotto silenzio per altri mesi, prima di accennarvi una seconda volta. La conclusione della mia psicologa è stata che "sembra che non ti fidi nemmeno di me". Mi fido di te, avrei voluto dirle. Però è vero, sembra di no.
Quando ho iniziato a scrivere questo blog, cioè non molto tempo fa, mi sono ripromessa di pubblicare solo post (pro)positivi. Post che, in qualche misura, dessero il senso dei miei vissuti o potessero renderne un abbozzo di analisi. Una presa di consapevolezza per me, uno spunto per altri, insomma. Mi rendo conto della falla, ora. Ho pensato di poter lasciare qui le mie esperienze risolte, quelle da cui il carico di dolore è stato alleviato, tenendo per me quelle vive, quelle in cui il dolore è ancora troppo grande, quelle di cui mi vergogno. E la vergogna nasce dalla paura del giudizio degli altri; la reticenza dalla paura che gli altri non sappiano guardarci in modo diverso da quello che ci aspettiamo che facciano. Bisogna fidarsi degli altri per lasciarsi andare. E - è vero – io non mi fido.

Fiducia. Non mi fido a lasciar entrare in contatto gli altri con il mio dolore, per una semplice ragione: dietro al mio dolore ci sono io. Ci sono io con tutte le mie paure, le mie ansie. Io, con tutte le mie gioie e i miei sorrisi. Io che mi odio, io che mi evito; io che cerco ogni giorno di volermi bene. Dietro al mio dolore rido. Dietro al mio dolore piango. Ed ogni giorno, qualunque cosa accada, decido di sperare ancora. Quando tutto va bene è più facile; sposto un po' lo scudo che mi protegge e parlo. Difficile che svisceri un argomento critico in piena crisi, devo averne già almeno un piede fuori. Quando le cose vanno male, mi ritiro. E lascio gli altri lontani, perché non possano mettere mano alla mia sofferenza. Come se potessero giocarci o riderci sopra; come se potessero giudicarla. E se dietro alla mia sofferenza ci sono io, chi giudicano loro realmente? La mia sofferenza? Me?

Per la paura del giudizio, cerco di riflettere un'immagine che sia conforme ai canoni. E questo ad un prezzo altissimo, che la mia psicologa mi ha fatto notare a modo suo: scotomizzo le parti di me che ritengo non essere adeguate. Cioè (quasi) tutto. Parti che fingo che non esistano, ma che tornano fuori in molti modi, come le abbuffate. Abbuffate che vengono a loro volta sotterrate, perché non conformi. Ma ne vale la pena? Vale la pena perdere quasi tutta me stessa per paura di non andare bene, di non essere conforme? O, forse, per paura di esserlo? Ma c'è poi differenza?

Abbuffate. Parlo di abbuffate, ma non sono bulimica. Non mangio fino a scoppiare, non vomito dopo. Io apro pacchi e pacchi di cibo, sempre e solo zuccheri (carboidrati e dolci), mastico e sputo. Di solito con latte. Di solito ingerisco anche uno po'. A volte dura poco, altre volte ore e arrivo alla fine gonfia e nauseata, mi viene da vomitare. Arrivo alla fine che mi sento in colpa per le quantità, mi vergogno per il modo, mi faccio schifo per come sono. Vorrei annullarmi, vorrei negarmi. Vorrei essere un'altra.
Succede soprattutto la sera. Quando lo stress cala, quando ci sarebbe tempo per me. Quando mi prende l'ansia che quel tempo per me sia sprecato, quando penso che "dovrei" fare tante cose e ciò che "vorrei" diventa solo un'ombra lontana, così sfumata che non riesco nemmeno più a comprenderne la forma. E il senso. Mi riprometto che ogni sera sarà l'ultima, che non ci saranno più abbuffate. 
A volte ci riesco. La scorsa settimana è stata la prima libera, 6 giorni su 7, da lunedì a sabato. Io ci credo, ci credo che prima o poi riuscirò a fermarmi. Lo sento che ogni volta ci sono sempre più vicina. Manca poco, manca un qualcosa. Un qualcosa che non riesco a gestire, perché mi toglie di mano la soluzione definitiva. E quando sento che sto perdendo il controllo, anche se ho lottato dannatamente 6 giorni, quando sento che sono al limite...lascio andare tutto, quasi con indifferenza. Allontano anche da me il mio dolore.
È l'idea di uno stop definitivo che mi spaventa, come mi spaventa l'idea delle ricadute. Combatto ogni giorno contro l'idea del "tutto o niente", perché questa concezione rientra nel mio modo di relazionarmi alle cose. Sono terrorizzata del privarmi di questi episodi, perché, nonostante mi facciano malissimo, mi danno conforto. Ed ogni volta che riesco a staccarmi, quel distacco mi sembra inutile, perché non mi sembra abbastanza definitivo e totale. 

Presente e futuro. Sto vivendo esperienze nuove. Nuove amicizie, un altro piccolo ambiente che inizio a considerare "casa". Il mio piccolo mondo si sta formando, finalmente ho degli amici che posso considerare una "base" sicura. La mia vita sta prendendo una direzione. Ci sono persone che si stanno fidando di me. Che ascoltano le mie richieste, che mi danno una possibilità. Ho ricevuto, in questi giorni, una possibilità per il mio futuro. Per la quale devo studiare, faticare, lottare, confrontarmi. La devo conquistare. E a me queste cose non fanno paura: è quello che vorrei fare nella vita, è una cosa che mi appassiona. Ma ho addosso un'enorme angoscia, l'angoscia di non farcela, l'angoscia di essere sbagliata. Di deludere, di rimanere delusa. L'angoscia di non meritarmi ciò che vorrei, proprio per come sono. L'angoscia c'è e io...

...le tengo testa. Come è vero che da domani ricomincio a contare di nuovo i giorni senza abbuffate, perché domani dovrà essere il primo. E spero il primo di una lunga serie.
Le tengo testa, però la domanda resta: perché ho questa angoscia? Perché ho paura di non farcela? Cosa succede se non ce la faccio? E cosa succede se - invece - ce la faccio?

La risposta non ce l'ho. Per il momento mi accontento di lasciare da parte il mio scudo e raccontarvi il mio dolore. Decido di fidarmi, di scoprirmi. Alla fine dei giochi, non voglio essere quella lontana per paura. Vorrei riuscire a lasciarmi andare. A ridere fino in fondo, piangere fino in fondo, perdere il senso del tempo. Dimenticarmi della dicotomia tra la mia mente è il mio corpo. Sentirmi una. Sentirmi me.
Per il momento mi accontento di tenere duro, continuare a crederci. Ricominciare a contare, sperando di contare sempre un po' più a lungo.

Credete sempre di potercela fare. Perché nessun altro può farlo efficacemente al posto vostro.
Vale

domenica 27 ottobre 2013

La componente visiva dell'anoressia

Volevo proporre questa sera uno spunto di riflessione.
Un po' di tempo fa sono stata all'Istituto Ciechi di Milano per partecipare al Dialogo nel Buio. Per chi non lo conoscesse, è un percorso totalmente al buio, che si svolge in un ambiente chiuso articolato in più stanze, ognuna con suoni, rumori, odori, oggetti particolari. La visita delle stanze viene svolta a gruppi di 6/8 persone ed è gestita da una guida ipovedente o cieca. Durante il percorso si utilizzano tutti i sensi, ad eccezione della vista, per esplorare l'ambiente. Si "vede" l'acqua grazie al suo rumore e si "leggono" frasi con le dita. È un'esperienza molto istruttiva, che dà un pochino il senso di cosa significhi non vedere, ma sentire le cose in altri modi.

Senza la componente visiva, come sarebbe la vostra vita?

Prima di questa esperienza, non ci avevo mai pensato veramente. Ho sempre desiderato che gli altri potessero vedermi diversa da quello che sono, ma appunto vedermi. Non avevo mai pensato a come sarebbe, a come starei io, se la visione del corpo non fosse parte del processo di interazione sociale. Sarei diventata anoressica comunque? Sia chiaro, io non penso che l'anoressia sia causata dal cibo o dall'aspetto fisico, ma da un disagio interno. Un disagio interno che mi son ritrovata a fronteggiare, ma che era troppo profondo e nascosto perché potessi riconoscerlo. Ma, dato mi faceva stare male e volevo debellarlo, ho trasposto il mio disagio su un altro piano, un piano su cui potessi intervenire, in particolare sul mio aspetto fisico. Ho quindi trasposto e "superficializzato" il disagio profondo per poter avere la possibilità di intervenire e ripristinare una condizione di benessere. Di conseguenza, il mio strumento primo è stata la restrizione alimentare, che inconsciamente pensavo poter risolvere il mio vero disagio e restituirmi il benessere, perché il mio cervello aveva inavvertitamente sovrapposto i due piani su cui stavo lavorando.
Che la restrizione potesse risolvermi i problemi era chiaramente un pensiero infondato, ma di fatto tutto il ragionamento è partito da un qualcosa di cui ancora non conosco le cause e che non so risolvere e poi è subdolamente scivolato su un altro piano, che non era quello autentico, ma era un piano su cui avevo potere. Se la componente visiva non ci fosse stata, probabilmente lo scivolamento non sarebbe avvenuto in questo senso, ma in altri. E probabilmente l'anoressia non ci sarebbe stata, ma avrei avuto a che fare con un suo sostituto.

Tutto questo può sembrare un ragionamento fine a se stesso, come se stessi dicendo che mi sarebbe piaciuto essere cieca per non sviluppare i miei problemi, ma non è così. È solo che, durante il percorso nel buio, ho avuto una strana esperienza, che mi ha realmente sorpresa.

Come ho scritto in precedenza, la visita guidata si svolge in gruppi di 6/8 persone. Io avevo prenotato con una mia amica, quindi gli altri partecipanti erano sconosciuti. Io e la mia amica siamo arrivate al pelo con l'orario in Istituto, quindi ci siamo unite al gruppo appena prima di entrare e non abbiamo fatto in tempo a conoscere e a presentarci agli altri partecipanti. Così l'abbiamo fatto all'interno, dove già non si vedeva più niente.
Durante il percorso ho familiarizzato con una signora, che camminava davanti a me. Dovevamo toccare i muri per orientarci, analizzare con il tatto la superficie degli oggetti per capire cosa fossero, assicurarci che gli altri componenti del gruppo ci seguissero: così abbiamo cominciato a fare tutto questo insieme. Ci scambiavamo pareri, facevamo tra noi battute. Non c'eravamo (letteralmente) mai viste prima, eppure ci stavamo conoscendo. Ricordo con precisione la sua voce, i suoi modi; era la voce di una persona gentile, molto dolce e un po' riservata. Nella mia testa, poteva essere un'insegnante molto precisa nel suo lavoro, ma disponibile ad ascoltare. Tutto questo dalla voce e dalla modalità con cui interagiva con me. Ancora oggi mi chiedo che lavoro facesse!
Nell'ultima stanza, c'è una frase da "leggere" con le mani, scritta con lettere giganti. Non vi dico cosa c'è scritto (così, se qualcuno vuole fare il percorso, non rovino la sorpresa!), ma solo che io è lei ci siamo divertite un mondo a decifrarla, lettera per lettera. Ho riso e scherzato con leggerezza. La conoscevo da poco, molto poco. Eppure mi stavo lasciando andare, ero molto più disinibita del solito. Lei non poteva vedermi, il mio aspetto fisico non mi stava ostacolando, in quel momento non importava proprio. Per un attimo mi sono sentita libera.
Quando l'ho vista, ho pensato: "Urca, me l'aspettavo diversa". Aveva i capelli corti e non lunghi, rossi e non neri, era vestita sportivamente. Se era grassa o magra, a quello non ci ho fatto caso. Ci credete? Se me lo raccontassero, io non ci crederei. Eppure per un attimo il mio cervello si è concentrato sugli occhi scuri e divertiti della signora e ha lasciato stare il resto. Quegli occhi me li ricordo ancora oggi e, anche se non so in che corpo collocarli, va bene così.
Alla fine del percorso, ci siamo viste e salutate. È stato naturale, come se ci fossimo già conosciute e il nostro aspetto non importasse davvero. Mi ha parlato alla luce nello stesso identico modo in cui l'ha fatto nel buio: c'era sempre la stessa dolcezza, la stessa gentilezza nel suo tono.

Sono uscita dall'Istituto Ciechi, ho preso la metro fino alla stazione e sono tornata a casa. Il mondo era lo stesso di prima; mi sentivo a disagio, ma con due problemi aperti nella mente: appurata l'importanza della componente visiva del mio disagio (che fino a quel momento non avevo mai valutato singolarmente), c'era qualche strategia specifica da poter attuare per riuscire a gestirla meglio? Tu vivi una dispercezione, nella quale "senti" e "vivi" il tuo corpo come grasso, anche quando non lo vedi. Ma questo processo è partito da un confronto visivo o è nato come componente percettiva a se stante?
E l'ultima domanda mi risuonava ancora più forte nella mente, diceva più o meno così: nel dialogo nel buio ti sei sentita libera dall'aspetto esteriore e hai avuto l'impressione che le persone che interagivano con te avessero a che fare con una parte "buona" di te, che non hai paura a mostrare. Ma chi ti dice che anche chi ha la vista intatta non sia in grado di apprezzare pienamente questa tua componente? Perchè hai paura che le imperfezioni del tuo corpo, il tuo grasso, possano essere così rilevanti da prevenire gli altri nel riconoscerti per come sei?
In altre parole, qual è la vera paura?

Non mi sono risposta, in realtà. Ma ho pensato di condividere con altri questa esperienza, che magari non mette in evidenza niente di che, però mi ha consentito di provare nuove sensazioni. Spero possa essere utile anche a voi e mi piacerebbe sapere se qualcuno ha avuto esperienze simili.

Buonanotte :)
Vale
         

Abbi cura di te

Ciao a tutti, chiunque legga. 
Oggi è per me una giornata non molto positiva, in cui non sono riuscita ad affrontare l'alimentazione come avrei voluto. Non so cosa succeda a voi, ma per quanto mi riguarda, quando i livelli di ansia salgono a seguito di un insuccesso, ho bisogno di trovare strategie che mi concedano di mantenere un rapporto di gentilezza con me stessa, senza - possibilmente - formulare pensieri umilianti e autodistruttivi, che:
  1. Mi riescono naturalissimi :) 
  2. Mi farebbero stare peggio.
  3. Mi indurrebbero a trovare una soluzione solo in apparenza "facile" al disagio, ma non produttiva. 

Quindi, quando l'ansia sale perchè magari ho avuto un episodio di Chew and Spit, inizio ad essere sopraffatta dalla frustrazione, delusione, rabbia e perdo lucidità. Nel momento in cui perdo lucidità, io mi arrendo: mi arrendo di fronte ai miei pensieri incazzati, allargo le braccia e dico loro "che ci volete fare? Io sono fatta così. Mi serve più tempo per riuscire".
Quest'atto formale di arrendermi - e quindi non lasciarmi trasportare in una spirale di ragionamenti patologici condizionati dal disgusto e dall'immagine distorta che ho di me stessa - è salvifico, perchè mi consente di decantare e mi restituisce un'immagine "umanizzata di me stessa", in qualità di persona che ci prova e può riuscire o non riuscire. 

Per me questo è difficilissimo e quindi, per affrontare l'ansia di questi momenti, ho dovuto trovare delle strategie e dei piccoli sostegni. Uno mi è stato fornito già confezionato dalla musica e volevo condividerlo con voi. Si tratta di una canzone che si intitola "Abbi cura di te". L'autore si chiama Cristian Grassilli, che insieme ad uno psichiatra (Gaspare Palmieri) ha dato vita a un progetto di psicologia e psichiatria in musica. Hanno, cioè, "cantato" alcuni dei disturbi psichiatrici principali, con molte delle loro caratteristiche e sfaccettature. Decisamente un lavoro interessante, che apre molti spunti di riflessione sia sulle modalità di diffusione della conoscenza dei disturbi psichiatrici, sia sulla scelta, in questo caso, di uno strumento di diffusione come la canzone, che è per antonomasia qualcosa che si avvicina e tocca corde profonde e intime delle persone. Mentre molti dei disturbi psichiatrici sono ancora un po' stigmatizzati.

Quindi, vi lascio con la verità e la dolcezza di questa canzone che ho ascoltato tante volte, con la speranza che possa servire anche ad altri da incitamento a continuare sulla propria strada, anche quando tutti gli sforzi fatti sembrano vani.


venerdì 25 ottobre 2013

Il gioco dell'oca?

Il processo di guarigione da un DCA è per ciascuno diverso. A lungo, ho creduto che per me fosse un po' come il gioco dell'oca. Ho tirato i dadi migliaia di volte. A volte procedevo, a volte tornavo inesorabilmente alla casella di partenza, altre rimanevo bloccata in un punto per turni e turni. Poi, ad un certo punto, ho capito di non aver mai davvero "tirato dadi". Tirare i dadi è un abbandonarsi alla sorte, al caso. Non sei responsabile del numero che esce.
In un processo di guarigione, non funziona così. Non ci sono dadi, ma tu stesso ti muovi sulle caselle, e, di casella in casella, cambi. Cambi profondamente, non solo quando avanzi, ma anche quando ti sembra di essere sempre uguale a te stessa. O peggio di prima.

Io lo so che si sente spesso dire "lottare contro i DCA", "lottare con l'anoressia/bulimia", "campagne contro i DCA", il "uscire dal tunnel dell'anoressia". E va bene così. I DCA sono malattie e come tali vanno riconosciute. Ma mi sembra che queste espressioni possano essere fourvianti, ai fini pratici. Mi spiego: quando guarisci, non devi lottare proprio contro di niente. Perchè non esiste una "signora anoressia", che alberga nel corpo di ogni anoressica. Esiste solo l'anoressica. Che è già sufficientemente in lotta contro l'autentica parte di se stessa per poter anche lottare contro un qualcosa dipinto come altro da sè. Smettere di lottare, di vessarsi, di cercare di plasmarmi sempre più verso un sè perfetto e inesistente: ecco come ho cominciato a guarire.

Io credo che questo sia un concetto importante, perchè ad un livello non specialistico (quindi al di fuori di psichiatri e psicologi) ci sono molti fraintendimenti. Per molti, l'anoressica è una persona che ha problemi con il cibo e quindi non mangia. Il passo logico successivo è che la guarigione, per l'anoressica, corrisponda alla rialimentazione. Niente di più falso. Riprendere a mangiare è un passo fondamentale e che ha la potenza di tranquillizzare moltissimo parenti e amici. Ma, per quanto mi riguarda, ha avuto una valenza pari a zero nel processo di guarigione, pur essendo stato un momento molto sofferto e ostico.

Io ora non sono considerabile "anoressica" (secondo i criteri Assolutamente Specificati) e non ne ho più la mentalità totalizzante, quindi, detta con parole popolari, sono "uscita" dall'anoressia, con qualche esito. Di sicuro tornerò su questo punto. Ma non sono uscita dai DCA. Soffro di uno di quei NAS, che si chiama Chew and Spit. Chi sa l'inglese, magari, già storce il naso. Per chi non sa l'inglese, significa che mastichi e sputi il cibo, in quantità più o meno consistenti. C'è chi lo considera un comportamento anoressiforme, perchè vede il "masticare e sputare" come un'alternativa al "non mangiare" (della serie: ho fame, ma non sono in grado di "concedermi" di mangiare: quindi mastico il cibo, come a concedermelo, ma poi lo sputo per non assimilarlo). Può essere. Per quanto mi riguarda, non credo che sia così. Credo che Chew and Spit sia più un'aborto di abbuffata, legata ad un quadro emozionale, in cui il cibo non è più uno strumento di controllo, ma una valvola di sfogo.

Ma queste sono solo parole. A che punto sono io, adesso? In realtà, mi ritrovo ad affrontare questo problema, perchè ho difficoltà ad interrompere questa condotta alimentare (che avviene dopo cena e al di fuori della normale alimentazione) e ho una paura folle. Perchè le cose mi stanno andando bene, se non fosse per questo. Devo parlarne con la mia psicologa, ma non riesco mai a farlo, perchè mi freno ogni volta. Sto facendo progressi, perchè ogni sera arrivo più vicina ad evitare un nuovo episodio, talvolta riesco anche ad evitarlo. Vorrei che quello di questa sera fosse l'ultimo. E che qualcuno cominciasse a contare con me i giorni, da domani.

Un'ultima cosa e poi per stasera vi lascio. Leggete l'ultima frase del precedente paragrafo, quella in grassetto.  "E che qualcuno cominciasse a contare con me i giorni, da domani". Un grande problema nella guarigione dall'anoressia, per me, è stato proprio questo: non ho trovato modo di parlarne, un po' perchè mi rifiutavo, un po' perchè avevo paura di una reazione ostile degli altri (un allontanamento) o addirittura una reazione invasva (es. mi dici che sei anoressica e non mangi, quindi io devo assicurarmi del fatto che tu mangi e quindi assillarti allo sfinimento). Un'anoressica (almeno, per me era così!) vuole che gli altri stiano ben fuori dai coglioni e non le tocchino l'argomento cibo, perchè l'intervento di altri sul cibo, sulle porzioni o sulla sua qualità è fortemente intrusivo, in quanto agisce direttamente sul mezzo che - nella mente dell'anoressica - la porterà verso ciò che idealmente è perfetto. Quindi, alla fine, si isola. Non perchè "voglia" isolarsi, ma perchè il prezzo da pagare per non rischiare interferenze intrusive e destabilizzanti è l'isolamento. E' un "isolamento protettivo".
Con l'isolamento, però, vengono anche le difficoltà. Quando cerchi di guarire è difficile farlo da sola. Avresti bisogno di un sostegno che non sia solo quello di una psichiatra e di una psicologa. A volte vorresti qualcuno che (appunto) conti i giorni con te, qualcuno di cui fidarti, che ti stia a sentire senza necessariamente dover commentare o fare qualcosa. Qualcuno che si prenda cura di te. E guardate cosa ho scritto io ora. "Vorrei che qualcuno contasse i giorni con me". Sapete perchè l'ho scritto? Perchè ho bisogno di sapere che per qualcuno valgo. E questo avviene perchè per me non valgo ancora abbastanza. Per me, guarire dai miei DCA significa essere testimone delle mie vittorie. Diventare la mia prima sostenitrice. Diventare padrona dei miei obiettivi. Non lotto contro niente e nessuno. Piuttosto ricostruisco quello che è rimasto di me e cerco di sentirlo mio. Perchè è tutto quello che ho. E non è poco.

Credete sempre di poter risolvere i vostri problemi,
Vale


Nuova partenza o nuovo traguardo?

Questo è un inizio. L'inizio di un percorso, il mio percorso "pubblico", che ho deciso di condividere con chiunque voglia leggere o passi di qui. Vi racconto un po' di che si tratta.

Punto primo. Gli psichiatri utilizzano un termine per descrivere il problema che io, come molte altre persone, mi son ritrovata ad affrontare: DCA, ossia Disturbi del Comportamento Alimentare. Per dare il senso del termine a chi non fosse addentro all'argomento, dire "DCA" è un pò come dire "biancheria": non sai mai se si tratta di mutande, calze o reggiseni. Occorre essere un poco più specifici per farsi capire e a volte raggruppare tante malattie in un gruppo unico può essere molto fuorviante, per chi non è troppo edotto sull'argomento. Quindi, pensate alla biancheria e fidatevi: anche se appartengono alla grande famiglia dei DCA, "anoressia" e "bulimia" sono due cose diverse. E non solo perchè, come pensano molti, l'anoressica non mangia e la bulimica mangia e vomita. No. Hanno una diversità strutturale. Non si può mettere un calzino come mutanda solo perchè appartengono entrambi alla categoria "biancheria". G0iusto?

Punto secondo. Alla categoria biancheria appartengono sì mutande, calzini e reggiseni. Ma anche i corsetti solo-per-bimbe-monelle, i reggicalze sempre più in disuso e le orrende magliette della salute. Lo steso vale per i DCA. Non ci sono solo anoressia e bulimia, ma anche molti disturbi, che cadono sotto il nome di DCA NAS (Non Altrimenti Specificati), ma che sono AAR (Assolutamente Altrettanto Rilevanti), in cui rientrano: (1) le forme di anoressia  e bulimia che non rispettano i criteri, (2) il Disturbo da Alimentazione Incontrollata e (3) il Chew and Spit. Saranno pure "NAS", ma credo che siano anche ben più diffusi della controparte Perfettamente Specificata. E più taciuti. E che sia un peccato. Perchè se le magliette della salute vanno fuori moda, amen. Posso rassegnarmi a non saper allacciare un corsetto. Ma dietro a un muro di silenzio c'è qualcuno che soffre. Che ci passa, come io ci sono passata (e ci sto passando). E allora, perchè non parlare anche di questi DCA NAS AAR?

Avete capito. La mia storia comprende dei DCA ed è per quelli che ho deciso di renderla pubblica. In parte per me, perchè mai come in questo momento ho bisogno di qualcuno con cui confrontarmi. In parte per gli altri, perchè spero che le parole della mia storia possano essere almeno di conforto a chi sta vivendo giorni bui e non crede che il suo tempo possa essere niente più che un grigio catena. Non è così. E non siete sole.

Vi ho spiegato il perchè di questo blog. Nel prossimo post vi racconto un po' a che punto sono della mia storia.

Credete sempre di poter risolvere i vostri problemi. 
Vale